Il governo di Pedro Sánchez in Spagna ha introdotto diverse riforme innovative nel settore del lavoro, con l'obiettivo di migliorare la qualità dell'occupazione, ridurre la precarietà e promuovere una maggiore giustizia sociale. Ecco le principali misure adottate:

1. Riduzione della settimana lavorativa

È stata approvata la riduzione dell'orario di lavoro settimanale da 40 a 37,5 ore senza diminuzione salariale. La misura, sostenuta dalla vicepremier e ministra del Lavoro Yolanda Díaz, entrerà in vigore nel 2025 e interesserà circa 12 milioni di lavoratori. È la prima modifica dell'orario lavorativo in Spagna da oltre 40 anni e rappresenta un passo significativo nel contesto europeo. TGLA7Ancora Fischia Il Vento+5la Repubblica+5Il Sole 24 Ore+5

2. Riforma del mercato del lavoro

Nel 2022, il governo ha implementato una riforma che limita drasticamente l'uso dei contratti a tempo determinato, promuovendo contratti a tempo indeterminato come forma standard di assunzione. Sono state introdotte restrizioni ai subappalti e rafforzata la contrattazione collettiva, con l'obiettivo di ridurre la precarietà e migliorare la stabilità occupazionale. Il Sole 24 Ore

3. Aumento del salario minimo

Il salario minimo interprofessionale è stato aumentato progressivamente, raggiungendo 1.080 euro netti mensili su 14 mensilità. L'obiettivo è mantenere il salario minimo al 60% del salario medio, in linea con le raccomandazioni europee, per garantire un adeguato potere d'acquisto ai lavoratori. Vulcano Statale+1SWI swissinfo.ch+1Le Grand Continent

4. Estensione dei congedi parentali

I congedi per maternità e paternità sono stati estesi da 16 a 20 settimane, promuovendo una maggiore equità di genere e facilitando la conciliazione tra vita lavorativa e familiare. Smart Working Magazine+3SWI swissinfo.ch+3Le Grand Continent+3

5. Regolarizzazione dei lavoratori stranieri

Per affrontare la carenza di manodopera dovuta all'invecchiamento della popolazione, la Spagna ha annunciato l'intenzione di concedere permessi di residenza e lavoro a circa 300.000 immigrati irregolari ogni anno fino al 2027. Questa politica mira a integrare i migranti nel mercato del lavoro e a rispondere alle esigenze economiche del paese. euronews

6. Introduzione del congedo mestruale

La Spagna è tra i primi paesi europei ad aver introdotto un congedo mestruale retribuito di tre giorni per le lavoratrici che soffrono di dolori mestruali invalidanti, riconoscendo l'importanza del benessere femminile nel contesto lavorativo. Vulcano Statale

7. Riforma del sistema di contribuzione per i lavoratori autonomi

È stato introdotto un nuovo sistema di contribuzione per i lavoratori autonomi, basato sui redditi netti reali. Questo sistema prevede 15 fasce contributive, con l'obiettivo di rendere il sistema più equo e sostenibile. Wikipedia

Queste riforme rappresentano un cambiamento significativo nel panorama lavorativo spagnolo, puntando a una maggiore stabilità, equità e inclusione nel mercato del lavoro.

L’8 e 9 giugno gli italiani saranno chiamati a votare su un tema che riguarda il cuore della nostra democrazia: il diritto alla cittadinanza per migliaia di giovani nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri. Il referendum propone un primo passo verso una riforma di civiltà che superi le rigidità della normativa attuale e ponga fine a un’ingiustizia evidente, figlia di scelte politiche sbagliate come la legge Bossi-Fini del 2002 e di un disinteresse sistematico, soprattutto da parte della destra, che negli anni ha trasformato l’inclusione in un tabù ideologico.

La legge Bossi-Fini, presentata all’epoca come uno strumento di “controllo” dell’immigrazione, si è rivelata in realtà una fabbrica di irregolarità. Legando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro, ha costretto migliaia di persone a vivere nella precarietà burocratica, esponendole allo sfruttamento e alla marginalità. Il paradosso è che proprio chi dice di voler “difendere i confini” ha prodotto le condizioni per un’irregolarità strutturale, che ha minato la sicurezza sociale e alimentato il lavoro nero. E oggi, con gli stessi slogan, la destra continua a rifiutare ogni proposta che miri all’inclusione e al riconoscimento dei nuovi italiani, ignorando del tutto la realtà delle nostre scuole, delle nostre città, delle nostre famiglie.

Chi nasce o cresce in Italia, studia nelle nostre scuole, parla italiano come lingua madre, conosce solo questo Paese come patria, non può essere considerato uno straniero. Eppure, per la legge attuale, lo è. Può chiedere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni, e solo se ha risieduto legalmente e ininterrottamente fin dalla nascita. Un singolo vuoto burocratico – spesso non dipendente dalla volontà della famiglia – può vanificare anni di vita e di appartenenza.

Il quesito referendario propone l’abrogazione parziale della legge 91 del 1992, aprendo la possibilità di introdurre uno ius culturae: il diritto alla cittadinanza per i minori stranieri che abbiano completato un ciclo scolastico in Italia o vissuto stabilmente nel Paese per un numero significativo di anni. Questo significa che, in caso di vittoria del , si spianerà la strada a una riforma giusta e moderna, in linea con i principali Paesi europei, che riconosce la cittadinanza non solo come legame di sangue, ma come appartenenza reale alla comunità.

Votare al referendum significa correggere un’ingiustizia storica, smettere di trattare centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze come ospiti a tempo e iniziare a considerarli per quello che sono: italiani. Significa anche respingere la propaganda della paura e dire chiaramente che l’integrazione è una risorsa, non un pericolo.

L’Italia ha bisogno di cittadini consapevoli, non di fantasmi legali. Ha bisogno di dare fiducia a chi la costruisce ogni giorno, anche se i documenti non lo riconoscono ancora. All’8 e 9 giugno, non perdiamo l’occasione di scegliere un Paese più giusto, più inclusivo, più coerente con i suoi valori costituzionali. Votare è un atto di dignità, responsabilità e futuro.

La reporter che per 18 mesi ha documentato la distruzione nella Striscia, è morta mercoledì 16 Aprile.  Secondo l'Onu sono 209 i giornalisti uccisi in guerra a Gaza, il racconto di alcuni superstiti. Un documentario su di lei è atteso a Cannes a maggio

Fatima Hassouna aveva 24 anni, era una fotogiornalista palestinese ed è stata uccisa da un bombardamento israeliano il 16 aprile mentre era dentro casa.
Viveva nel quartiere di Al Touffah, nel nord di Gaza. Con lei sono morte dieci persone della sua famiglia. A maggio Fatima Hassouna sarebbe dovuta andare  al festival del cinema di Cannes per la presentazione del documentario Put your soul on your hand and walk, della  regista iraniana Sepideh Farsi, di cui è la protagonista. In un post su Instagram, pubblicato l’anno scorso, Hassouna aveva scritto: “Se muoio, voglio una morte che il mondo senta”. Uno studio della Brown University, negli Stati Uniti, ha calcolato che dal 7 ottobre 2023 a Gaza sono stati uccisi almeno 232 giornalisti, più di quanti ne siano morti sommando i giornalisti uccisi nella guerra civile americana, nelle due guerre mondiali, nella guerra di Corea, nella guerra del Vietnam, nelle guerre in Jugoslavia e nella guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre. Il Committee to protect journalists ha anche calcolato che l’esercito israeliano è responsabile della morte del 70 per cento dei giornalisti uccisi l’anno scorso in tutto il mondo. Ci sono poi i giornalisti palestinesi arrestati:
dal 7 ottobre sono almeno 84, molti dei quali si trovano in detenzione amministrativa, sono cioè trattenuti a tempo indeterminato e senza che nei loro confronti sia stata formalizzata un’accusa. Se a tutto questo si aggiunge la decisione del governo di Benjamin Netanyahu di non far entrare nella Striscia di Gaza i giornalisti stranieri, è evidente un disegno più ampio: la volontà di imporre un black out giornalistico sul conflitto e di ridurre al silenzio i possibili testimoni dei crimini di guerra commessi dai soldati dell’esercito israeliano in quello che la Brown University ha definito “un cimitero dell’informazione”. 

La rielezione di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti ha messo l'Europa in agitazione. Gli Stati Uniti si stanno ritirando dai trattati internazionali, mettendo a rischio il futuro dell'Europa. I rischi per la nostra difesa e la nostra economia sono evidenti, ma un elemento cruciale resta poco esposto: la tecnologia.

Gli Stati Uniti, ma anche la Cina, giocano il gioco del potere a livello globale basandosi sulle proprie forze. Gli Stati Uniti hanno quindi posizionato in modo eccellente la loro potenza militare. L'Europa dipende in parte da questo sostegno militare, anche se ormai non è più certo quanto valga ancora l'appartenenza alla NATO. La Cina è fondamentale per le materie prime e la produzione manifatturiera, il che conferisce al Paese un controllo saldo sulle catene di approvvigionamento globali. Entrambi i Paesi sanno esattamente come sfruttare la loro posizione sulla scena mondiale.

Ma anche l'Europa ha delle carte da mettere in tavola. Disponiamo di competenze innovative e di applicazioni tecnologiche uniche, il cui valore è inestimabile in tutto il mondo. Si pensi alle innovazioni olandesi nella gestione delle risorse idriche, alle tecniche di desalinizzazione in Spagna e alle tecnologie avanzate di irrigazione in Italia. Un paese come la Norvegia ha una vasta competenza nello stoccaggio di CO2 e Wageningen ha molta esperienza in agricoltura e adattamento climatico. 

Si tratta di ambiti della conoscenza nei quali l'Europa può creare dipendenza reciproca anziché semplicemente competere. Mentre gli Stati Uniti e la Cina dominano con la produzione a basso costo o il commercio di armi, noi possiamo differenziarci diventando un partner indispensabile nelle soluzioni per il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare e la tecnologia sostenibile.

Il continuo attaccamento dell’Europa agli ideali ci rende vulnerabili

Holger Seitzavvocato specializzato in brevetti

Abbiamo le tecnologie, ma finché non le useremo come carta vincente, non giocheremo al gioco del potere globale. Mentre gli Stati Uniti e la Cina possono prendere decisioni strategiche e agire rapidamente, per l'Europa frammentata questo è ovviamente più difficile. C'è quindi un urgente bisogno di una maggiore cooperazione e di una gestione più centralizzata. L'Europa deve smettere di aggrapparsi ingenuamente alle regole del gioco "civilizzate" e adattarsi alla realtà della competizione globale. Gli Stati Uniti e la Cina hanno da tempo smesso di esitare nell'utilizzare il potere economico e la tecnologia come armi geopolitiche, spesso al di fuori dei confini dei mercati aperti e delle pari opportunità. La continua adesione dell'Europa a questi ideali ci rende vulnerabili.

È tempo di liberarci dalla nostra immagine di bravi ragazzi in classe, ad esempio riconsiderando la protezione delle nostre tecnologie. Rendendo i brevetti più accessibili ed economici, ad esempio attraverso sussidi o sconti per le parti europee, l'UE può rafforzare il suo fulcro innovativo e diventare più competitiva. Prendiamo ad esempio l'orticoltura olandese: quando il direttore di Alibaba Jack Ma ha visitato il settore orticolo olandese, è diventato chiaro quanto sia importante una buona protezione contro la contraffazione. Con una politica dei brevetti intelligente, l'Europa può non solo proteggere le sue tecnologie, ma anche migliorare la sua posizione di potenza innovativa.

Se l'Europa non agisce subito, rimarrà vulnerabile agli occhi delle grandi potenze che hanno già abbracciato la sua posizione unica di arma strategica. Facciamo il grande passo e agiamo per usare il nostro nucleo innovativo come arma strategica. Ciò ci consentirà di intervenire efficacemente nel gioco di potere, anche se Trump decidesse di allentare ulteriormente i legami con l'Europa.

ROMA (ITALPRESS) – Un’importante udienza legale ha attirato l’attenzione internazionale quando Moussa Abu Marzouk, alto funzionario di Hamas, ha presentato una testimonianza a un tribunale britannico. L’oggetto della causa è la richiesta da parte di Hamas di rimuovere la sua etichetta di gruppo terroristico imposta dal governo britannico. Questa posizione è supportata dalla dichiarazione di Abu Marzouk, che insiste che il movimento palestinese non è un’organizzazione terroristica, ma piuttosto un “movimento di liberazione e resistenza islamica” che si batte per la libertà della Palestina.

Nel suo intervento, riportato da Drop Site News, Abu Marzouk ha sostenuto che Hamas si oppone al “progetto sionista” e ha chiarito che gli attacchi condotti dal gruppo sono rivolti esclusivamente a obiettivi militari. Le sue affermazioni riguardanti l’attacco del 7 ottobre, in particolare, indicano che non sarebbero stati mirati ai civili e considera le violenze di quella giornata come attribuibili principalmente a non membri di Hamas.

Le Accuse di Complicità contro la Gran Bretagna

Abu Marzouk ha inoltre accusato il Regno Unito di essere complice in quello che definisce “genocidio” contro i palestinesi, in quanto Londra fornisce supporto militare a Israele. “Come può il Regno Unito continuare a giustificare il sostegno a un regime che opprime e discrimina il popolo palestinese?” ha dichiarato, sottolineando che la posizione del suo gruppo non rappresenterebbe una minaccia per la sicurezza britannica. Queste parole hanno sollevato interrogativi circa le responsabilità dei governi stranieri nelle dinamiche del conflitto israelo-palestinese.

Un team legale di avvocati sta rappresentando Hamas in questa disputa legale su base pro bono, poiché ricevere fondi direttamente dal gruppo sarebbe considerato illegale. Secondo la documentazione presentata, gli avvocati affermano che vi è una disparità nelle definizioni di “terrorismo” e che le azioni di Hamas potrebbero rispecchiare quelle di altri gruppi come le Forze di Difesa Israeliane (IDF), l’esercito ucraino e perfino l’esercito britannico stesso. “La legge sulla sicurezza nazionale deve essere equa e non discriminare un singolo gruppo rispetto ad altri che utilizzano la forza in contesti simili,” si legge nella loro argomentazione legale.

Questa udienza legale ha riaperto il dibattito su cosa significhi realmente la definizione di “terrorismo” e chi dovrebbe essere classificato come tale. Molte autorità internazionali e figure di spicco, come Amnesty International e Human Rights Watch, stanno monitorando attentamente la situazione, sottolineando l’importanza di un approccio giuridico che rispetti i diritti umani e non perpetui l’ingiustizia.

Nel frattempo, il governo britannico non ha rilasciato dichiarazioni ufficiali in risposta a questa testimonianza, ma il dibattito intorno al suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese continua a crescere, alimentato da attivisti e collettivi che chiedono un cambiamento nella politica estera britannica.

In un contesto di crescente tensione, voci come quella dell’ex Primo Ministro Tony Blair hanno messo in guardia contro il rischio di radicalizzazione associato a politiche che semplificano il discorso sul conflitto. Blair ha recentemente affermato: “Non possiamo ignorare le complessità di questa crisi. Ogni azione e ogni parola hanno conseguenze”.

Il caso di Moussa Abu Marzouk rappresenta quindi una pietra miliare in un dibattito che abbraccia questioni di giustizia, diritto internazionale e le misure di sicurezza adottate dai governi. Resta da vedere come il sistema legale britannico risponderà a questa richiesta e quali ripercussioni avrà a livello internazionale.

Antonio Marcegaglia, presidente dell'omonimo gruppo familiare fondato nel 1959 in Italia dal padre e diventato uno dei leader mondiali dell'acciaio, ha promesso di confermare definitivamente "tra qualche mese" la sua decisione di investire 750 milioni di euro a Fos-sur-Mer nell'impianto di acciai speciali che ha acquisito al bar del tribunale nel giugno 2024.

Ma, ascoltando il 24 marzo la visione che ha tracciato davanti al ministro dell'Industria e dell'Energia Marc Ferracci, la sua descrizione del luogo che vuole offrire domani a questa installazione che rischiava di scomparire prima che lui la riprendesse in mano, non si può fare a meno di convincersi che il manager porterà a termine il suo progetto. "Appena ha preso il comando, ho visto il suo potenziale per rafforzare l'integrazione del nostro gruppo a monte", confida, proseguendo un approccio iniziato diciotto mesi prima con l'acquisto di un'acciaieria in Gran Bretagna, a Sheffield, per mettere in sicurezza la sua filiera siderurgica a lungo termine.

Oggi, il manager ha in programma non solo di ammodernare l'unità esistente da cui escono 100.000 tonnellate di acciai speciali all'anno, ma di costruire, proprio accanto, un nuovissimo stabilimento, con acciaieria, colata continua, forni, laminatoio a caldo, bobinatrici...

Mentre altri responsabili di progetto sono ancora alla ricerca di fondi per finalizzare le loro intenzioni di investimento in Fos e si rivolgono al governo per fornirglieli finanziariamente, Marcegaglia, con il suo capitale di famiglia, sembra avere una libertà d'azione incomparabile. Antonio Marcegaglia ammette a malapena che dovrà sistemare "qualche punto" con lo Stato in anticipo fino a quando la sua decisione non sarà ufficializzata.

Produzione in crescita e sovrana per il futuro stabilimento di Marcegaglia

L'avvio del futuro impianto è previsto per il 2028. A pieno regime, dovrebbe impiegare 700 persone rispetto alle 300 attuali e produrre 2 milioni di tonnellate di acciai a basso tenore di carbonio e 150.000 tonnellate di acciai speciali. "Aumenteremo enormemente la sua efficienza", ha assicurato il ministro, vantandosi allo stesso tempo della cooperazione che vuole attuare con il Grand Port Maritime de Marseille per il trasporto di rottami metallici e la spedizione dei suoi prodotti con le future strutture di GravitHy e Neocarb di Elyse Energy.

Per Marc Ferracci, "il progetto Marcegaglia è eccezionale in termini di dimensioni, ambizione di decarbonizzazione e tempistica di implementazione. L'industria siderurgica è essenziale per tutte le catene del valore, è un'industria di industrie", ha detto, prima di andare a 1,5 km di distanza, in un'altra "industria di industrie", Kem One, nell'industria chimica.

Industrie interdipendenti

Nel dicembre 2013, questo produttore di cloruro di vinile monomero (VCM) era stato vicino alla chiusura, ma il suo acquirente, Alain de Krassny, ha stabilito una strategia industriale che lo ha rimesso in piedi fino alla fine del 2021, quando è stato venduto al fondo di investimento americano Apollo. Quest'ultima, insieme alle istituzioni finanziarie, ha firmato il 20 marzo un accordo di finanziamento da 200 milioni di euro per continuare a sostenere progetti a lungo termine e rafforzare le proprie posizioni in modo sostenibile.

Dal 24 marzo, Kem One Fos ha una tecnologia a cui guardare avanti, con la messa in funzione della sua nuova elettrolisi bipolare a membrana. Questo investimento di 200 milioni di euro migliorerà l'efficienza energetica e l'impronta di carbonio (-50.000 tonnellate all'anno nell'atmosfera). "Iniziato due anni fa, questo è il più grande investimento dell'azienda", afferma Olivier Thomas, direttore tecnico, che ricorda che la grande chiusura alla fine del 2024 ha mobilitato 1.800 persone per cinque settimane, mentre l'impianto ne ha solitamente 300.

Le ricadute delle sue attività contribuiscono anche all'ancoraggio di altre, dal momento che l'azienda fornisce ora parte del suo sale della Camargue dalla Compagnie Salins du Midi, da Salin-de-Giraud, oltre al salgemma sotto forma di salamoia dal suo stabilimento di Vauvert (Gard). Un apposito pontile ospita le chiatte che lo trasportano.

Essere in grado di proiettarci sul costo dell'energia

Il management di Kem One ha colto l'occasione per spiegare a Marc Ferracci come la sua "iper-elettro-intensità" implicasse una tariffa energetica adeguata alle sue esigenze operative. Quest'ultimo dava l'impressione di aver afferrato la posta in gioco. "Questo sito è emblematico dei problemi dell'industria", afferma. Deve essere possibile garantire un prezzo dell'energia elettrica competitivo su un orizzonte temporale sufficientemente lungo. Siamo quindi in attesa che i negoziati tra EDF e le industrie ad alta intensità di energia elettrica sui contratti futures prendano forma. Un altro problema in questo settore è che la concorrenza internazionale è spesso sleale. Il governo francese sta agendo con l'Europa per proteggere le molecole critiche nel quadro del "Critical Chemicals Act" che sarà discusso nelle prossime settimane.

Marc Ferracci ha inoltre confermato il sostegno alla realizzazione della linea ad alta tensione a 400 kV per sostenere l'industria e sostenere l'elettrificazione degli usi in Provenza-Alpi-Costa Azzurra.

In un contesto dominato da decenni di guerra, repressione e miseria, un grido si alza dalla Striscia di Gaza: “Fuori Hamas”. È un grido raro, pericoloso, ma straordinariamente potente. Le recenti proteste nei territori palestinesi contro Hamas rappresentano un evento senza precedenti, tanto da essere definite “storiche” da molti osservatori. Per la prima volta da anni, centinaia di persone hanno sfidato apertamente l’organizzazione armata che governa la Striscia con il pugno di ferro dal 2007.

Chi è davvero Hamas

Fondata nel 1987 come ramo palestinese dei Fratelli Musulmani, Hamas nasce come movimento religioso e sociale, ma diventa rapidamente un attore militare e politico. Dopo la vittoria elettorale del 2006 e il colpo di forza del 2007 contro Fatah, Hamas assume il controllo esclusivo della Striscia di Gaza, instaurando di fatto una dittatura che da allora non ha più permesso elezioni libere.

Nel corso degli anni, Hamas ha represso ogni forma di opposizione, controllando i media, l’istruzione e persino gli aiuti umanitari, utilizzati spesso per rafforzare il proprio potere militare.

Molti Paesi, tra cui l’Unione Europea, gli Stati Uniti e il Regno Unito, classificano Hamas come organizzazione terroristica.

Il sangue dei civili: Gaza ostaggio

Durante ogni conflitto con Israele, Hamas ha utilizzato scuole, ospedali e moschee per nascondere armi e militanti, rendendo la popolazione civile bersaglio delle rappresaglie israeliane. Migliaia di razzi sono stati lanciati verso Israele da quartieri popolati, trasformando donne, uomini e bambini palestinesi in scudi umani.

Il risultato è devastante: oltre 30.000 morti stimati solo dall’inizio dell’ultima guerra nel 2023, con distruzioni di massa, carestie e una crisi umanitaria fuori controllo.

La rivolta che non ti aspetti

Eppure, qualcosa si muove. Il 25 marzo 2025, centinaia di palestinesi sono scesi in strada a Khan Younis, nel sud di Gaza. Con il coraggio di chi non ha più nulla da perdere, hanno gridato:

“Abbiamo fame!”,
“Basta guerra!”,
“Fuori Hamas!”

Un gesto rarissimo e pericoloso, come raccontato da diversi media italiani:

  • Il Post – “Le rare proteste contro Hamas nella Striscia di Gaza”
  • Sky TG24 – “Proteste a Gaza contro Hamas: ‘Basta guerra’”
  • QN Quotidiano Nazionale – “A Gaza scoppia la protesta dei palestinesi contro Hamas”
  • Rai News – “Proteste contro Netanyahu e Hamas”
  • L’Opinione – “Palestinesi contro Hamas: ‘Vogliamo mangiare’”

Le manifestazioni sono state subito represse: pestaggi, arresti e minacce. Ma il segnale è forte: la paura inizia a incrinarsi.

Conclusione: la speranza tra le macerie

Non si tratta ancora di una rivolta popolare su larga scala. Ma è un inizio, e in un territorio schiacciato tra la guerra e la repressione, anche un piccolo gesto può fare rumore. C’è chi, nel silenzio e nella fame, trova il coraggio di dire basta.

Queste proteste sono un atto di eroismo civile. Sono il sintomo che, sotto il regime, il cuore del popolo palestinese continua a battere. Non solo contro l’occupazione e la guerra, ma anche contro coloro che, in nome della resistenza, hanno trasformato Gaza in una prigione fatta di paura, sangue e silenzio.

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